di Antonio Polito dal Corriere della Sera
Illustrazione di Ugo Guarino

«Se vado a piazza Navona, e incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra, maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare dell’hascisc invece di leggere di un libro». Pier Paolo Pasolini, non certo un intollerante nei confronti della differenza o del disagio giovanile, considerava la droga «una vera tragedia italiana», come nel titolo dell’articolo che pubblicò nel luglio del 1975 sul Corriere della Sera. Però tentava di capirne il perché, che si trattasse di un giovane borghese o di «un drogato in un bar di piazza dei Cinquecento o al Quarticciolo». «Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza – scriveva – ciò che mi par di sapere intorno al fenomeno è il seguente fatto: la droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura… la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura». Non è arbitrario rileggere oggi uno dei più profetici interventi del grande scrittore, a più di quarant’anni di distanza. Molti esperti, alle prese con la forte recrudescenza del consumo e delle morti per droga, parlano infatti di un «ritorno agli anni 70», il periodo in cui l’eroina, irrompendo come un fenomeno di massa nella modernità, bruciò la vita e le menti di tanti ragazzi. Forse la vera grande differenza tra ora e allora è che non c’è più un Pasolini, e per la verità non c’è quasi più nessuno, che si interroghi sul perché: se cioè si tratti solo di una questione privata, di chi si droga e delle loro famiglie; o se esista invece un qualche nesso tra la cultura del Paese e questa rinnovata emergenza, e dunque sia una questione pubblica, culturale e sociale, e perciò in definitiva politica.

In verità qualcuno c’è: il capo della Polizia, per esempio. Segnalando qualche giorno fa a un convegno della Comunità di San Patrignano che negli ultimi anni è salito il numero di morti per overdose, è aumentato il consumo, e si è abbassata l’età, il prefetto Gabrielli ha aggiunto: «Ci sono stati ulteriori sdoganamenti culturali, non comprendendo che questo è un approccio pericoloso. Non credo che ci siano droghe meno pericolose di altre, basti pensare che quasi il 98% delle persone che approdano al consumo di sostanze letali hanno iniziato da sostanze che si considerano quasi ludiche o di poco conto». Non ci interessa qui riaprire il dibattito sulla liberalizzazione delle droghe cosiddette «leggere». È più importate segnalare il problema «culturale» che pone Gabrielli: e cioè che abbiamo accettato l’idea che una sostanza psicotropa possa essere assunta a scopo «ricreativo», come si dice oggi con un gentile eufemismo da movida. Che dunque la ricerca dello sballo, di una perdita più o meno temporanea della coscienza, non denunci un disagio, ma configuri soltanto uno stile di vita. E che ci si debba dunque limitare a ridurre gli eventuali danni collaterali.

Pasolini non la pensava così. Credeva che ci fosse una spiegazione culturale, che esistessero «periodi storici in cui non c’è spazio per la droga: o meglio, tale spazio in altro non consiste che nel vuoto culturale interiore di singoli individui». Mentre invece gli pareva di vivere in un periodo «in cui lo spazio (o vuoto) per la droga è enormemente aumentato». E se ne dava una spiegazione che forse calza a pennello anche per la nostra epoca: «La caduta del prestigio irrelato di tutti i valori di una intera cultura non poteva non produrre una specie di mutazione antropologica, e non poteva non causare una crisi totale».

Oggi non ci sono scrittori engagé che seguano questa pista interpretativa. Interrogarsi sul tessuto di valori che regge la società è diventato fuori moda, un esercizio senza alcun senso per chi aderisce a una idea di libertà individuale che confina con il relativismo etico, e dunque non vi scorge il trionfo di quel consumismo che tanto preoccupava Pasolini. Chissà se i nostri ragazzi che trovano in discoteca la pasticca giusta al momento giusto sono più liberi o più schiavi del mercato, e della sua capacità di sollecitare i gusti del pubblico con una vasta gamma di prodotti. A giudicare dal silenzio degli intellettuali si può anzi dire che la «mutazione antropologica» sia oggi così perfettamente compiuta che non la vediamo neanche più. Si discute perciò piuttosto di criminologia, come arrestare e sequestrare, e se liberalizzare danneggi o favorisca i trafficanti, accresca o riduca il traffico. Eppure anche Roberto Saviano, convinto liberalizzatore, non può evitare di darsi una spiegazione «esistenziale» del ricorso alla droga: «Perché la cocaina regna? Perché la vita è una merda, perché ti fa sentire sempre troppo brutto, troppo povero, troppo grasso». Il problema è proprio lì: diamo sempre più per scontato che l’istinto di fuga dal male di vivere richieda l’aiuto di una sostanza, il conforto di una dipendenza. Accettiamo che i nostri figli siano così immaturi da non reggere altrimenti il dolore dell’esistenza. Per questo abbiamo smesso di combattere la battaglia contro la droga. Per questo «anche le famiglie non sono più in prima fila, come fu negli anni Settanta e Ottanta, e sembrano diventate parte del sistema consumistico», denuncia il presidente dell’Associazione dei genitori antidroga. Per questo lo «spazio, o il vuoto» per la droga, diventa sempre più incolmabile.

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