Importante presa di posizione del coordinamento “Ditelo sui Tetti”, di cui il nostro Osservatorio è parte, sul tema del suicidio assistito.
Ai Presidenti di Veneto e Friuli VG
p.c.
Ai presidenti delle regioni
Al Presidente del Consiglio dei ministri
Ai Vicepresidenti del Consiglio dei ministri
Al Ministro della salute
SUICIDIO MEDICALMENTE ASSISTITO – VIOLAZIONI DELLA SENTENZA DELLA CONSULTA 242/19, DA ULTIMO IN CASI DECISI IN VENETO E FRIULI VENEZIA GIULIA
Chi si assumerà la responsabilità di stravolgere il senso del Servizio Sanitario nel nostro Paese? Chi ha deciso la resa alla cultura di morte che la associazione Luca Coscioni sta seminando nelle regioni italiane, provocando domande di assistenza sanitaria a suicidi, le quali, passo-passo, stanno strutturalmente modificando lo scopo delle istituzioni stesse, facendole divenire potenti moltiplicatori della “cultura dello scarto”? Queste sono le domande che le circa cento associazioni del network “ditelo sui tetti” (www.suitetti.org) devono porre, sulla base di fatti recentemente accaduti in Veneto e Friuli-Venezia Giulia, in punto di assistenza sanitaria a ipotesi di suicidio.
I fatti più recenti.
Qualche giorno fa, l’Azienda sanitaria di Trieste ha deciso di sostenere medicalmente l’eventuale suicidio di “Anna”, che, essendo “da tempo affetta da sclerosi multipla”, necessita – come riportano le cronache- di “assistenza continua da parte di terzi” ovvero “mangia, si lava, si muove, va in bagno solo se fisicamente assistita da parte terzi”. Qualche settimana fa, invece, l’ospedale di Verona ha assicurato assistenza al suicidio di “Gloria”, “malata oncologica”, perché trattata con (ordinari) “farmaci antitumorali mirati”.
L’illecito superamento della sentenza 242/19 della Corte costituzionale
1) A prescindere dai “trattamenti di sostegno vitale”? Per giustificare la procurata-morte di queste vite umane, l’associazione Luca Coscioni invoca (per aggirarla, come vedremo) la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, che, come noto, ha cesellato un eccezionale perimetro di non-applicazione della pena per reati di “aiuto al suicidio” (art. 580 c.p.), in presenza, fra l’altro, di “trattamenti di sostegno vitale”, “quali -si badi bene!- la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali”. Invece, in Veneto basterebbero ordinari farmaci antitumorali, assunti da milioni di malati oncologici. O, in Friuli V.G., per portare la morte sarebbe addirittura sufficiente che una persona debole riceva assistenza, come peraltro accade sempre nelle nostre case verso bimbi, anziani, malati cronici o per i tanti accuditi dai caregiver. A tacer d’altro, va denunciato un palese sfondamento persino dei parametri della citata sentenza costituzionale n. 242/2019, giacché la Consulta, per derogare al codice penale, ha precisato di riferirsi, da un lato, a “situazioni inimmaginabili all’epoca” dello stesso (1930) quali quelle degli esempi di sostegni vitali riportati, e, dall’altro, al “cosiddetto uso compassionevole di medicinali” ovvero relativi a casi “di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche”. Pertanto, se un ospedale pubblico collaborasse al suicidio di un malato che, invece, viene ancora curato con ordinari (e frequentissimi) percorsi terapeutici o che ha solo bisogno di assistenza per vivere, allora i canoni della Consulta verrebbero chiaramente elusi.
2) Introdotta la “patente regionale” per il suicidio ospedaliero? Approfittando della generale rassegnazione, l’Ass. Luca Coscioni sta anche surrettiziamente traslando il piano su cui, finora, sono avvenute le domande di assistenza a un suicidio ad Aziende sanitarie. I casi più recenti, infatti, non riguardano più situazioni di imminente “pericolo di vita” e in cui “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi a un mantenimento artificiale in vita non più voluto” (ancora Corte cost. 242/19). Piuttosto, si chiede all’autorità sanitaria una sorta di “via libera preventiva” al suicidio assistito, che potrà poi essere deciso o meno dall’interessato. “Io non desidero morire in questo istante, ma voglio avere il diritto di farlo appena sentirò che è arrivato il momento”, scriveva “Stefano”, “autorizzato” sempre in Veneto nell’ottobre 2022. Allo stesso modo, nelle cronache friulane del 30 settembre 2023 “Anna” ben chiarisce di non voler porre fine subito alla propria vita, ma solo di “poter ora decidere serenamente sui prossimi passi”. L’assistenza al suicidio non è, cioè, più cercata per “condizioni estremamente compromesse”, in cui l’aiuto di un terzo appare necessario e con “prospettive di vita così quantificabili in alcuni giorni”. (cfr. sempre Consulta 242/19), ma si trasforma nel pretendere un impegno generale e preventivo del Servizio Sanitario Regionale, per una sorta di “patente” per potersi suicidare con l’aiuto dell’ospedale pubblico, solo quando così si decidesse.
3) L’estromissione della fragilità (e del relativo parere del CNB). Pretendere un “diritto a morire” dal SSN significa anche eludere la prospettiva stessa in cui si era posta la Corte costituzionale, la quale paventava piuttosto i “rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili” (cfr. 242/19). Temendo condizionamenti, la Consulta ha perciò assegnato una priorità assoluta (anche) a due canoni quali il “diritto fondamentale” ad adeguate terapie del dolore, nonché la necessità di saper valutare ogni singola situazione, canoni che non a caso vengono gravemente trascurati nei casi citati. Tant’è che nei relativi procedimenti non sono state rispettate, né considerate le indicazioni del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ha declinato i ricordati essenziali criteri costituzionali nello specifico parere del 24 febbraio 2023, in cui, fra l’altro, si chiede ai Comitati Etici Territoriali proprio di verificare l’effettività delle cure palliative e di comporre caso per caso il nucleo di valutazione, coinvolgendo le persone più vicine a ogni singolo richiedente il suicidio.
Il vero tema: una inversione di marcia del SSN?
Quel che, nel silenzio dei decisori, sta accadendo è che i Servizi Sanitari Regionali stanno “cambiando direzione”. Questo è il fine ultimo che spiega le nuove modalità con cui l’ass. Luca Coscioni sta mettendo pressione alle regioni italiane. D’altronde, di per sé non vi è alcuna necessità di mobilitazione per affermare la libertà di suicidio, che rientra, drammaticamente, nel novero delle possibilità della libertà personale, secondo dinamiche esistenziali che sconfinano nel mistero dell’essere umano, di fronte alle quali nulla si può, tranne che inginocchiarsi in un estremo rispetto e nella speranza che invece un Significato possa essere incontrato. Come si è visto, il punto di caduta nei nuovi casi assistiti della Coscioni è invece altrove: si pretende non tanto la libertà di compiere un personale gesto estremo, quanto che la morte sia delibata e comminata dallo Stato. Ad esempio, nelle cronache friulane del 30 settembre, si vuole che il Servizio Sanitario pubblico “provveda non soltanto alla prescrizione e all’approvvigionamento del farmaco letale, ma anche metta a disposizione il setting assistenziale e proprio personale sanitario competente durante la procedura”.
Così, la sfida si attesta a livelli che interessano i fondamenti stessi della comunità civile e delle sue istituzioni. Infatti, l’ass. Luca Coscioni sa bene che ogni “scelta” proprio delle istituzioni pubbliche influenza molto la cultura e il popolo, giacché indica un ritenuto “bene”, come ci avverte da secoli Tommaso d’Aquino. E per questo pretende che siano gli ospedali pubblici ad affermare quella particolare ideologia individualista e, da ultimo, nichilista, secondo cui una vita senza una piena autonomia non avrebbe dignità, così da ritenere adeguata la soppressione della stessa. Tuttavia, “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il -ben diverso- dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire” (Corte costituzionale n. 242/2019). La partita, dunque, non si gioca affatto attorno al riconoscimento della libertà di darsi la morte (che appartiene al piano della libertà di ognuno e mai è stata in discussione), ma attorno al “bene” che sarà indicato dalle istituzioni. Si deve decidere, cioè, se il Servizio Sanitario pubblico voglia affermare il valore anche di vite fragili e dunque curarle con adeguate cure palliative e una assistenza “h24”, come prescrivono gli artt. 2, 3, 32 comma 1, della Costituzione, nonché l’art. 1 legge 833/78, o se, al contrario, voglia “dire” ai più deboli che la loro vita ha un valore minore o nullo, così assicurando loro l’aiuto per “andarsene”. Chiediamo, quindi, che sia ripristinato con urgenza nei Servizi Sanitari delle Regioni, a partire dal Friuli VG e dal Veneto, la direzione assiologica e istituzionale su cui la Costituzione ha fondato la Repubblica.
Cordialmente. Il network “Ditelo sui tetti”