Da: Tempi.it

Il Bambino Gesù non si è impegnato in un miracolo ma nell’accoglienza della piccola e in un’alleanza terapeutica genitori-medici che in Inghilterra non trova più cittadinanza

I medici inglesi di Indi Gregory sono eccellenti, competenti, lavorano in un ospedale di elevato profilo scientifico e clinico, come ripetono i D’Avack, i Crisanti e diversi editorialisti per cui ciò che dicono gli inglesi è indiscutibile e ciò che propongono gli italiani disumano? Sì, lo sono. Sono capacissimi. Ed è proprio questo a rendere la decisione di staccare i supporti vitali di Indi Gregory ancora più drammatica.

I medici del Queen’s Medical Center di Nottingham sanno perfettamente eseguire l’intervento per correggere il difetto cardiaco di Indi Gregory prospettato dall’ospedale Bambino Gesù di Roma. Ma non vogliono eseguirlo. I medici del Queen’s Medical Center di Nottingham sanno perfettamente attuare il protocollo di trattamenti sperimentali e di sostegno vitale e cure palliative per garantire la sopravvivenza e il comfort di Indi fino all’esito finale della sua malattia prospettato dal Bambino Gesù. Ma non vogliono attuarlo.

Su Indi non pesano solo scelte di natura medica

E non vogliono non perché l’intervento e i sostegni vitali in regime di palliazione causino sofferenza a Indi. Ma perché non ne vale la pena. Perché Indi è spacciata. E nel Regno Unito, come nei paesi del Nord Europa in generale, il sistema sanitario tende a non accollarsi interventi su bambini con aspettative di vita ridotte per ragioni legislative e di budget. Non è una scelta di natura medica. È una scelta di natura etica.

Nel Regno Unito, dove il boom dei Nipt test sta riducendo drasticamente il numero dei nati con anomalie cromosomiche, si può abortire un bambino con la trisomia 21 in ogni momento della gravidanza, fino al parto. Il limite per i bambini “sani” è fissato a 24 settimane, cioè quando un feto è vitale fuori dal grembo materno, ma non esiste un limite o una protezione per quelli “difettosi”. Quando Heidi Crowter, giovane donna con la sindrome di Down, ha chiesto all’Alta Corte il riesame giudiziario della normativa che autorizza la soppressione di persone disabili «come me» che per la legge sono «better off dead» («meglio morte»), i giudici hanno sentenziato che la legge non è discriminatoria e non viola la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dei bambini down. Al contrario ipotizzare un limite violerebbe i diritti delle donne «costrette a dare alla luce bambini che non saranno amati o voluti».

I “difettosi” nel paese dei Nipt test

Dall’Islanda alla Danimarca, lo scopo della diagnosi prenatale ha virato dall’individuare condizioni che potrebbero causare problemi di salute al feto alla selezione e il “controllo di qualità” della popolazione. E l’impianto di uno stent per risolvere le patologie cardiache di cui spesso soffrono i bambini con la sindrome di Down non è scontato. Quando a Máire Lea-Wilson, diagnosticarono alla 34esma settimana di gravidanza la trisomia 21 del suo Aiden, per tre volte le è stata offerta la possibilità di abortirlo. Aiden sarebbe nato solo due settimane dopo e «durante questo periodo di grande vulnerabilità, mi è stato ripetuto solo che mio figlio non sarebbe stato in grado di vivere in modo indipendente, forse non sarebbe stato in grado di camminare o parlare, avrebbe subito interventi chirurgici per correggere i suoi problemi intestinali ed eventuali difetti cardiaci congeniti, che aveva un’alta probabilità di morire in utero e che avrebbe reso le nostre vite un calvario».

Anche ai genitori di Indi sono state fatte pressioni per abortire fino alla nascita. La diagnosi è arrivata al secondo mese di vita ma ancora in grembo, ha raccontato suo padre Dean, le ecografie di routine di Indi presentavano problemi cardiaci e del liquido nel cervello della bambina. Nel Regno Unito è pacifico non dare alla luce un disabile. Cosa farne una volta nato non è questione medica, di studi o competenze, ma questione di linee guida, leggi, budget.

Il Bambin Gesù salva l’alleanza medici-genitori

È questa la differenza tra medici inglesi e medici del Bambino Gesù. Indi Gregory ha due patologie concomitanti ma non dipendenti. La prima: una malattia mitocondriale con prognosi infausta – non conosciamo i dettagli, quale sia il gene mutato, ma sappiamo che come per Charlie Gard e Alfie Evans, si tratta di una malattia sistemica che inficia il funzionamento di diversi organi e tessuti dell’organismo e che porta alla morte. La seconda: un difetto cardiaco comune a molti bambini. La differenza tra gli approcci dei due ospedali non sta nelle terapie (non ci sono terapie salvavita), ma nello sguardo sul bambino e nella conseguente cura proposta. Il Bambino Gesù non si è impegnato in un miracolo ma nell’accoglienza della famiglia Gregory, e nell’accompagnamento a un percorso di cura che inevitabilmente porterà alla morte di Indi. Si è impegnato in un’alleanza terapeutica genitore-medico che nel Regno Unito, complice l’ormai importante giurisprudenza su casi analoghi, sembra trovare sempre più difficilmente cittadinanza.

Ha scritto Repubblica citando i precedenti di Charlie Gard e Alfie Evans che l’Italia era «l’unico Paese disposto ad accoglierli nelle strutture del Bambin Gesù, in nome di un ideale religioso più che scientifico». Baggianate. Non solo perché allora l’Inghilterra rifiutò la disponibilità dell’ospedale del Papa, ma anche dell’ospedale di Monaco, dell’équipe del Besta e dell’ospedale Gaslini di Genova (dove avrebbe vivaddio trovato accoglienza la piccola Tafida). Ma perché nell’era in cui la medicina è in grado di alleviare le sofferenze, dare a un malato la compassione che un essere umano merita attraverso le cure non è accanimento religioso. È missione del medico. «Anni di faccia a faccia con la malattia mi hanno insegnato che quella di guarire non è l’unica richiesta del malato grave. Talvolta dentro di sé egli sa che questo non è possibile, ma ha bisogno di incontrare degli esseri umani che riconoscono, attraverso le loro azioni di cura, il valore sacro della sua vita – diceva Lucien Israel, luminare francese dell’oncologia -. Se sente che siamo al suo fianco, il malato riesce anche ad accettare il fatto che la vita umana è limitata e a fare la pace col suo destino. Ma non lo accetta se non c’è qualcuno che si dedica a lui, e ha ragione».

Una zona grigia presieduta dai giudici

Indi è piccola, ma i suoi genitori hanno bisogno di questa dedizione, per essere accompagnati al suo destino. È questa la differenza tra i competentissimi medici del servizio sanitario inglese e quelli del Bambino Gesù e il cuore della vicenda degli ultimi casi inglesi: il supporto dei genitori nella zona grigia dell’esistenza, presieduta nel Regno Unito da giudici e tribunali.

Oggi alle 12 (13 italiane) si terrà una nuova udienza presso al Corte di Appello per decidere se trasferire o meno la giurisdizione del caso al giudice italiano. L’udienza sarà presieduta da Eleanor King, che l’11 aprile del 2017 autorizzò il Great Ormond Street Hospital di Londra a rimuovere i supporti vitali a Charlie Gard, e che il 20 febbraio 2018 confermò analoga decisione dell’Alta Corte per Alfie Evans, al grido di «Dare un nome alla malattia non cambierà la prognosi», «quello che succederebbe a Roma e a Monaco non altererebbe la prognosi», «è un trattamento che lo terrebbe in vita, laddove i tribunali del Regno Unito hanno stabilito che non è nel suo migliore interesse tenerlo in vita». Il trasferimento presenta rischi elevati: la presa in carico del Bambino Gesù può avvenire solo una volta atterrato l’aereo di una compagnia privata incaricato dai genitori. Ma i rischi non sono un’obiezione: per quale motivo i medici inglesi continuano a rifiutare un confronto e negare il trasferimento dei loro pazienti in uno dei migliori ospedali pediatrici del mondo?

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